Matrimoni forzati e la storia di Saman.
Dalla notte del 1° maggio non si hanno più notizie di SAMAN.
SAMAN è una ragazza di 18 anni, di origini pakistane, che si era rifiutata di accettare come sposo un uomo imposto dalla famiglia. Saman, si legge dalla stampa, si era innamorata di un altro ragazzo ma la famiglia aveva già deciso il suo destino, al quale non avrebbe potuto ribellarsi.
Saman però l’ha fatto, ha chiesto aiuto, è stata accolta in una casa protetta ma in aprile ne è uscita per ritornare a casa, voleva i suoi documenti per raggiungere il ragazzo che amava. Da allora non si è più vista e le notizie di questi giorni non sono rassicuranti. Nei media si accredita l’ipotesi che Saman sia stata uccisa dallo zio: se così fosse saremmo davanti ad un nuovo drammatico femminicidio.
La storia di Saman è la storia di molte altre ragazze di origini straniere che vivono in Italia. Non così raramente per loro matrimonio combinato significa matrimonio forzato, che si distingue dal primo perché il consenso della sposa viene estorto tramite violenze, minacce o altre forme di coercizione: la più frequente e invisibile, quella di essere isolata ed espulsa dalla famiglia e dal contesto sociale che quel matrimonio chiedono sia celebrato. Nel matrimonio combinato, invece, nonostante siano le famiglie ad avere un ruolo decisivo nella scelta del partner, la decisione finale spetta comunque ai due sposi. Il confine tra le due forme è molto sottile: il matrimonio combinato, pratica tollerata in diverse culture, può senza grande clamore risolversi in violazione della libertà femminile, decurtando i diritti delle giovani donne dentro la famiglia e nei più ampi contesti sociali in cui vivono.
Violazione della libertà femminile che trae forza da sistemi patriarcali e di controllo della donna di cui poco si parla e che è soprattutto molto difficile fare emergere e da quantificare. Purtroppo in Italia ancora non esiste una raccolta sistematica di dati e informazioni in riguardo a questo fenomeno (come invece richiede l’art. 11 della Convenzione di Istanbul, che prescrive di raccogliere a intervalli regolari i dati statistici relativi a qualsiasi forma di violenza che rientra nel campo di applicazione della convenzione medesima, in cui pur si affronta espressamente la questione dei matrimoni forzati).
Violazione della libertà femminile che difficilmente viene denunciata per la forte resistenza delle vittime, destinate, se decidono di farlo, all’ostracizzazione: la resistenza a denunciare i propri genitori e parenti si accompagna alla paura di rimanere isolate, tagliate fuori dal contesto sociale cui appartengono, prive di ogni supporto – anche economico – da parte della famiglia.
Una violenza che resta nascosta e sulla quale sarebbe invece importante intervenire preventivamente, coinvolgendo nel lavoro di crescita sociale e culturale associazioni ed esponenti delle comunità nelle quali i matrimoni forzati allignano con maggiore frequenza, pur essendo considerati negativamente dai più.
Pochi invece sono gli studi che si interessano in Italia di questo drammatico fenomeno: nel 2014 l’Associazione Le Onde ha condotto una ricerca quali-quantitativa sul “Forced Marriage in Italy”, in cui le comunità presenti sul territorio nazionale più esposte al rischio di matrimoni forzati sono risultate quelle dei paesi del sud est asiatico (Bangladesh, Pakistan, India, Sri Lanka) e di alcuni paesi africani (Senegal, Ghana, Nigeria, Egitto).
Contrariamente ad altri paesi europei, l’Italia non aveva alcuna disposizione normativa che si occupasse di questo drammatico fenomeno sociale prima del 2019, quando è entrato in vigore il c.d. Codice rosso (l. n. 69 del 19 luglio 2019), che ha introdotto nel codice penale il nuovo art. 558 bis (“costrizione o induzione al matrimonio: «Chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona a contrarre matrimonio o unione civile è punito con la reclusione da uno a cinque anni”).
Nella triste vicenda di Saman l’Ucoii (unione delle Comunità Islamiche d’Italia) è entrato in scena ed emetterà una fatwa per proibire i matrimoni combinati forzati.
E’ necessario che la questione entri anche nel dibattito pubblico, culturale e politico. Un dibattito argomentativo e costruttivo che trovi la strada di una prevenzione strutturata senza lasciare spazi vuoti a chi vorrebbe strumentalizzare questo dramma.
Il nostro pensiero oggi va a Saman.